Sono sdraiata al limitare del bosco, sotto l’ombra lieve di un vecchio corbezzolo e mi lascio andare al dormiveglia, in queste ore di caldo. Sotto di me c’è una valletta con l’erba ingiallita dal sole dell’agosto e alcune capre che, incuranti della vampa estiva, pascolano tranquille.

Mi piace stare qui. I primi tempi ci venivo quasi tutti i giorni, poi, a poco a poco, ho rallentato le mie visite, ma, in primavera, quando nascono i capretti, rimango ancora per ore a osservarli, incantata.

Ogni tanto mi ricordo. Mi ricordo di mia mamma e del branco dei miei fratellini, tutti più piccoli di me. Ricordo il duro lavoro quotidiano, le lunghe camminate per andare a prendere l’acqua alla fonte con i piccoli che mi seguivano passo passo, spesso piagnucolando, a volte ridendo. Ricordo le profonde rughe di preoccupazione sulla fronte di mio padre, lo sguardo della mamma, ogni giorno più spento e rassegnato e la pencolante catapecchia nella quale si viveva ammassati e a pancia vuota.

Neppure del mio nome mi sono dimenticata e della volta in cui mi padre mi chiamò – Ida! – per mostrarmi a un uomo magro e sporco, con una grande barba arruffata e gli occhi piccoli e cattivi. “Questo d’ora in poi sarà il tuo padrone” mi disse “dovrai badare alle sue capre. Vedi di comportarti bene e di non farmi vergognare di te”. Venni trascinata via da una mano nodosa e screpolata, troppo sconvolta anche solo per provare a ribellarmi.

Cominciò così la mia seconda vita. Stavo in un capanno sgangherato, quello che è ancora lì, sempre più cadente, vicino al recinto delle capre. Il lavoro non era difficile, però, anche se lo fosse stato, sarebbero bastate le continue botte a farmelo imparare alla svelta. C’era da sorvegliare quegli animali indipendenti e dispettosi e mungerli ogni sera, facendo trovare i secchi pronti per quando lui, all’imbrunire, fosse venuto a prenderli. Insieme al latte, quasi ogni volta, prendeva anche me. Mi si buttava addosso, facendomi un gran male, e se ne tornava al paese soddisfatto. Solo a ripensarci, mi si rizzano ancora tutti i peli. Sentii talvolta allora che era era meglio morire. Mi arrampicavo sulle rocce e chiudevo gli occhi per non vedere il baratro che mi aspettava. Ovviamente, ogni volta, me ne allontanai.

C’erano i capretti, così teneri e affettuosi, che mi colpivano con le loro testoline dure per convincermi a partecipare ai loro giochi sfrenati. La notte dormivo abbracciata a uno di loro e tiravo avanti. La cosa più orribile di quella vita era tenerglieli fermi mentre lui li sgozzava con un coltellaccio e il resto del gregge, chiuso nel recinto, belava disperatamente. Dopo le accarezzavo con le mani ancora lorde di sangue, cercando di calmarle e di convincere loro e me che, in fondo, tutto si poteva sopportare.

Ero talmente ingenua e ignorante che non feci caso al gonfiore della mia pancia. D’altra parte, con un pezzo di pane e una tazza di latte al giorno, lo ritenevo normale, anche ai miei fratellini succedeva la stessa cosa. Passò del tempo prima che anche lui se ne accorgesse, ma, quando avvenne, scoppiò il finimondo. Mi picchiò col bastone fino a farmi svenire, urlando: “Disgraziata! Cosa me ne faccio di un bastardo! Domani torno su con una mammana, speriamo che ce la faccia a farti sgravare senza ammazzarti…sennò…peggio per te!”.

Solo allora capii e quella notte non riuscii a dormire, terrorizzata da ciò che sarebbe successo. Al mattino lasciai libere le capre e scappai, infilandomi nel fitto del bosco. Nel momento in cui le gambe non mi ressero più, entrai carponi in un intrico di agrifogli e piansi fino ad addormentarmi.

Il sole era già alto nel cielo, quando il latrare eccitato di una muta di cani mi svegliò. Si intrufolarono anche loro sotto le piante e, abbaiando e ringhiando, mi stanarono. Uscii di lì a quattro zampe, trovandomi davanti quelle di un cavallo, alzai gli occhi e vidi una freccia, già incoccata, che puntava dritta verso di me. Li richiusi immediatamente e aspettai il colpo, tremando in modo incontrollabile. Ma non fu la freccia a colpirmi. Mi sentii punzecchiare dalla punta di una lancia, mi decisi a sbirciare verso l’alto e la vidi. Era una donna, la più bella che avessi mai visto: la pelle candida come latte, le membra armoniose, i lunghi capelli d’oro raccolti in una spessa treccia, solo il viso non riuscii a guardare, era così luminoso da risultare abbagliante. Continuò a colpirmi leggermente, fino a costringermi ad alzarmi in piedi. Con l’asta della lancia mi tirò su lentamente il davanti della lacera tunichetta fino a scoprire la rotondità del mio ventre. Scese da cavallo con un agile balzo e mi fu davanti. Io guardavo fissamente in basso verso i suoi stivali morbidi e le sue gambe nude, lunghe e muscolose, e mi accorsi delle mani che si protendevano verso di me solo quando le vidi appoggiarsi sulla mia pancia, palpandola con dolcezza e competenza. Fu allora che capii.

Ero davanti alla potente Artemide, Dea delle donne, protettrice delle gravidanze e dei parti, e non ebbi più paura. Lei mi forzò ad alzare la testa e potei sopportare la luce dei suoi occhi che adesso erano pieni di pietà. Lei dovette leggere molte cose nei miei perché trasse un lungo sospiro, prima di chiedermi, con una voce leggera come il suono di un flauto:

“Come ti chiami?”.

“Ida” sussurrai.

“Quanto desideri di avere questo figlio?”.

Non ci avevo ancora pensato, ma risposi d’impulso:

“Molto”.

“Allora lo avrai, anche se dovrai pagare un prezzo”.

Mi si annebbiò la mente e piombai a terra carponi, sentendo le mie braccia e le mie gambe trasformarsi, diventando forti come mai erano state, mentre un’energia selvaggia e sconosciuta mi riempiva le viscere. Alzai verso di lei il mio muso peloso e lei lo accarezzò:

“Vai, sarai libera e potrai tenerti il tuo cucciolo. Di più non posso fare”.

La volli ringraziare e dalla mia bocca uscì un potente ululato.

Quando se ne andò, veloce quanto un’illusione, iniziò la mia terza vita.

Fui accolta da un branco, anche se gli altri ebbero qualche timore alla vista del mio pelo lucido e delle mie zanne affilate. Cacciai e giocai con i miei compagni e le mie compagne. Ebbi il mio cucciolo, che crebbi con infinito amore fin quando non intraprese anche lui la sua lunga strada. Pensai che non ne avrei più avuti, i maschi erano un po’ impauriti da me e dalla mia diversità, finché un lupo vecchio e saggio, segnato da cento cicatrici, non mi cercò e io lo accettai con gratitudine.

Sono passati quattro inverni da allora, abbiamo dato vita a lupacchiotti e lupacchiotte sani e robusti. La mia vita è piena di amicizia e solidarietà.

Ogni tanto la Dea passa, cacciando, in questo bosco e allora io le corro dietro a perdifiato, insieme alla muta dei suoi cani, paga del lieve sorriso che lei mi rivolge. Poi, nelle notti di luna crescente, ululo a lungo, ammirandola in una delle sue forme più belle, e le parlo della gratitudine e della venerazione che provo per lei.